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Martin Parr a Livorno dal 25 settembre al 12 dicembre 2021

A un anno e mezzo di distanza, rispetto al previsto, arriva finalmente il tempo di Martin Parr. Una mostra che dal 25 settembre al 12 dicembre 2021 sarà visitabile ai Granai di Villa Mimbelli di Livorno. È occorsa tenacia per non rinunciare a questo evento minacciato dalla pandemia ma alla fine la Fondazione Carlo Laviosa ed il Comune di Livorno ce l’hanno fatta.

Riconosciuto come uno dei più grandi fotografi contemporanei, Martin Parr (classe 1952) propone uno sguardo per niente omologato di un mondo estremamente omologato. Da oltre quarant’anni scandaglia fotograficamente le trasformazioni sociali dell’Inghilterra, suo paese natale, fino ad estendere il proprio sguardo sul globalizzato Pianeta Terra. Testimone delle fratture socio-culturali dell’epoca thatcheriana, dello sviluppo del turismo di massa, dell’avvento del cibo industriale, dell’omologazione dei comportamenti e degli stili di vita, Martin Parr racconta con sguardo critico, con ironia sferzante, senza mai porsi al di sopra di un sistema ma denunciandone le debolezze delle quali lui stesso è partecipe. E forse, proprio in questo suo sentirsi partecipe di un mondo la cui cruda rappresentazione rasenta il sarcasmo ed il grottesco, sta la chiave del successo di critica, di pubblico e commerciale.

Lui stesso ha spesso posato come soggetto dei suoi scatti non risparmiandosi un’autoironia che negli Autoportraits lo colloca come icona al centro di composizioni vicine ad un gusto nazional-popolare che spesso incontriamo nelle case, soprattutto in quelle degli anziani, dove il souvenir è proposto in un melange che accosta oggetti di disparata provenienza: ricordi familiari, oggetti da bancarelle, icone religiose provenienti dai mercati di luoghi sacri, omaggi floreali e, inevitabilmente, fotografie.

Dagli anni ’90 Parr fa parte della prestigiosa agenzia Magnum, fondata nel 1947 da Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, per citare alcuni dei prestigiosi nomi che si associarono per difendere i diritti dei fotografi. L’agenzia conosciuta per il taglio documentaristico, rappresentato da generazioni di grandi fotografi in scatti di un rigoroso bianco e nero, potrebbe sembrare una casa poco adeguata per un autore che ha fatto del colore saturo, dell’uso del flash in pieno giorno e del digitale gli strumenti della sua cifra stilistica. La contraddizione è solo apparente poiché Martin Parr è il testimone di una società che si trova a proprio agio nell’artefatto, nei cibi che sembrano di plastica, nelle tinte innaturali. È il reporter di un mondo che ha sostituito la rappresentazione al paesaggio, i sogni al concreto, che esalta il sintetico e che si appresta a respirare aria confezionata. Parr, testimone del suo tempo, si iscrive a pieno titolo nella tradizione della fotografia documentaria, con uno scarto, spesso assente anche nei grandi fotoreporter del passato, che lo pone come osservatore e osservato, dietro e davanti all’obiettivo. Apocalittico e integrato, giudice e imputato, coglie le debolezze della contemporaneità ma ravvisa anche i pregi dell’evoluzione scientifica annaffiando il tutto con una dose di humor carico di pietas che scaturisce dal sentirsi parte di un ‘Truman show’ al quale partecipa divertito e inorridito. I soggetti trattati non raccontano teatri di guerra, né flussi migratori né catastrofi naturali, soggetti cari a reporter che si muovono tra fotografia testimoniale e autoriale. Parr è il cronista di una visione in cui l’elemento quotidiano mette in relazione le classi sociali, il triviale che accomuna i ceti e che si esalta nell’utilizzo del tempo libero con i cliché che il consumismo impone, segni di un’umanità ammantata di orpelli spesso volgari, ridicoli, un’umanità che crea la caricatura di se stessa e che si libera nella nudità estiva su spiagge che ancor prima degli abiti spogliano del pudore. “Life’s a beach”, la vita come spiaggia (ma ‘beach’ è omofona anche di ‘bitch’ ovvero cagna, prostituta) esplode l’estate quando i corpi si sgangherano in posizioni impensabili in interni o in orari lavorativi. La “vita in mutande” ammette le bizzarrie, svela i segreti taciuti dagli abiti e li trasforma in ostentazione e posture che si arricchiscono di addobbi: cappelli, occhiali, bandane, pareo, trucco, bibite colorate e quant’altro permetta di concepire il tempo libero come momento di perdita del controllo e della misura.

Se la fotografia si può intendere come specchio della realtà, la mostra “Life’s a Beach” trova in Livorno una tessera mancante o meglio un’immagine mancante. È in estate che lo spirito ‘anarchico’ della nostra città si esalta. Più volte ho osservato la traslazione che il corpo di noi livornesi assume nei mesi estivi: il bacino si sposta in avanti di circa 15°, i piedi si aprono “10’ alle 2” e si trascinano in quella che è la camminata da scoglio o meglio da cemento, da stabilimento balneare. Al conoscente che si incontra, ancora prima del buongiorno si dice “l’hai fatto ir bagno?”. Una volta ho risposto “no” e nel volto del mio interlocutore si è dipinta un’espressione mista a stupore e a preoccupazione; “o cos’hai fatto?” mi ha risposto accorato e sinceramente addolorato. Non lo faccio più, dico sempre “sì”. Ecco, trovo che l’incontro tra la fotografia di Martin Parr e Livorno possa essere origine di sinapsi scoppiettanti poiché raramente, quella che per molti mesi all’anno diventa una città spiaggia, nel pur variegato excursus delle ‘Martin’s beach’, contiene al tempo stesso la capacità di porsi e di guardarsi, di essere in scena e in platea, di essere testo e critica, attori e spettatori in un doppio ruolo dal quale scaturisce una dose di autoironia rara da riscontrarsi ad altre latitudini. L’ironia di chi sa bene che la vita è una ‘bitch’. I livornesi sono un po’ tutti Martin Parr.

Serafino Fasulo
Curatore e coordinatore della Mostra

 

 

Fondazione Laviosa