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Tre anni di attività rivolta al futuro

Verso la metà del 1800, dopo secoli di studi sui risultati provocati dal far convogliare la luce su una superficie attraverso un foro, grazie alla scoperta di materiali foto sensibili, nacque la fotografia. Spesso ridotta a mezzo per registrare la realtà, la fotografia faticherà a trovare una sua dignità tra i linguaggi creativi. Ad essa…

Verso la metà del 1800, dopo secoli di studi sui risultati provocati dal far convogliare la luce su una superficie attraverso un foro, grazie alla scoperta di materiali foto sensibili, nacque la fotografia. Spesso ridotta a mezzo per registrare la realtà, la fotografia faticherà a trovare una sua dignità tra i linguaggi creativi. Ad essa venne riconosciuto il merito di liberare la pittura dalla necessità di riproduzione del reale e non è casuale che correnti come quella impressionista e macchiaiola siano coeve della diffusione dell’apparecchio fotografico. Nella contemporaneità spesso si sono rovesciati i parametri e la fotografia si è svincolata dalla necessità di riproduzione del reale per dar spazio ad istanze autoriali. Oggi la macchina fotografica è spesso usata come supporto per esigenze artistiche. Senza niente togliere all’importanza di percorsi creativi, ci piace proporre il far fotografia come uno sguardo sulla realtà che trova la sua originalità non tanto nel trasformarla sospinti da un’esigenza artistica ma nel desiderio di ricerca di nuovi punti di vista, di angolazioni che mettono in crisi il banale, l’ovvio, il codificato.

La Fondazione C. Laviosa, con il progetto “Fotografia e Mondo del Lavoro”, avvia un percorso che, partendo da uno strumento capace di registrare lo spazio circostante grazie all’effetto della luce, vuole approdare piuttosto alla messa in luce di aspetti relativi al concetto di osservazione. Lo scopo che il progetto si è dato è pertanto quello di diffusione di un linguaggio attraverso l’incontro con autori, percorsi didattici, ricerca. Non interessano il “clik” fotografico come testimonianza di una superficiale esigenza tassonomica di un passaggio, né la ricerca estetizzante o sensazionale di un concetto di “bello” standardizzato, né il compiacimento artistico spesso derivante da una manipolazione della materia ma uno sguardo capace di sorprendere e di sorprendersi attraverso la comprensione dell’altro da sé, che si tratti di paesaggio con o senza figure. Una fotografia etica che nasca dal desiderio di mettersi in connessione con l’immagine, frutto cioè dell’empatia tra fotografo e soggetto.

Il progetto ha trovato un partner convinto nell’Amministrazione Comunale che ha messo a disposizione competenze, spazi e risorse. La prima tappa del nostro percorso ha riguardato, attraverso il concorso “Fotografia e mondo del lavoro”, il mondo dei cantieri navali, con particolare attenzione alla vela. Non poteva essere altrimenti, il mare è la grande risorsa di Livorno, i commerci e gli incontri di culture che il mare ha generato sono i pilastri portanti della città. L’imbarcazione è il contenitore ed il contenuto di uno sviluppo che cominciò col gonfiarsi delle vele e con lo sbattere dei remi sull’acqua per poi produrre il rumore dei motori. Che l’acqua non separa, lo dimostra la copiosa partecipazione di concorrenti di tutt’Italia, con invii di immagini anche dalla Tunisia e dall’India, alla prima edizione di “Fotografia e mondo del lavoro: cantieri velici, cantieri nautici e correlati”.

Al primo concorso della Fondazione Carlo Laviosa ha fatto seguito un’importante mostra dedicata alla grande fotografa siciliana Letizia Battaglia. Con l’autrice sono state selezionate 50 foto che la raccontassero a tutto tondo. Erano presenti gli scatti drammatici effettuati negli anni ’80 che raccontano i delitti di mafia ma anche la Palermo amata da Letizia, quella dei bambini, di chi ha diritto alla speranza. La mostra è stata accolta con entusiasmo e alla presentazione con la presenza dell’autrice un pubblico di tutte le età, numeroso e attento ha omaggiato una delle più acute testimone del nostro tempo. La mostra ha avuto luogo a I Granai di Villa Mimbelli di Livorno nei mesi di gennaio-febbraio-marzo, 2019.

Dopo la mostra dedicata a Letizia Battaglia la Fondazione Carlo Laviosa ha avuto il piacere di ospitare la celebre fotografa per il workshop “Paesaggi, passioni e contaminazioni”. Venti partecipanti hanno seguito Letizia Battaglia durante tre intense giornate di lavoro.

Questo workshop non è stato l’unico, vanno ricordati gli incontri con Marco Barsanti dedicati allo studio dei programmi di foto ritocco “Lightroom” e “Photoshop”.

La seconda edizione del concorso, nei mesi settembre e ottobre 2019, ha proposto un argomento che riguarda il vivere umano su scala planetaria: “Come l’industria interagisce con il paesaggio e la vita sociale”. La Laviosa Chimica Mineraria, della quale la Fondazione Carlo Laviosa è emanazione, da sempre si pone interrogativi di carattere etico atti a migliorare il rapporto tra industria e ambiente, tra industria e forza lavoro. Il tema del concorso ha voluto pertanto stimolare lo sguardo dei fotografi sull’incidenza che l’industria ha sulle abitudini, i costumi, l’urbanistica, l’economia e ovviamente il paesaggio. Le foto selezionate sono state esposte a I Granai di Villa Mimbelli di Livorno e nella galleria-libreria Tour di Babel, nel cuore del quartiere Marais di Parigi.

Un discorso a parte merita la conclusione del laboratorio didattico e produttivo che ha avuto come tutor uno dei più apprezzati fotoreporter italiani, Ivo Saglietti, tre volte insignito del World Press Photo Award. Il percorso, annunciato già nello scorso Annual Report, si è concluso con la mostra “Volontariato” che ha avuto luogo, dal 7 dicembre 2019 al il 5 gennaio 2020, nei locali de I Granai di Villa Mimbelli. È un caso straordinario che questi prestigiosi spazi espositivi comunali siano stati messi per ben tre volte nell’arco di un anno a disposizione delle iniziative della Fondazione ed è una inconfutabile dimostrazione di quanto il Comune di Livorno creda nel nostro operato e nella qualità delle nostre proposte.

L’anno 2020 era iniziato, per quanto riguarda le attività della Fondazione, con l’entusiasmo dovuto a “Life’s a beach”, mostra dedicata a Martin Parr e realizzata in collaborazione con la celebre agenzia Magnum di Parigi ed il Comune di Livorno. Il manifestarsi ed estendersi del Covid 19 hanno cambiato i programmi. La vita culturale si è bloccata o è stata relegata ai collegamenti on line. È stata determinante la volontà dell’Amministrazione Comunale di Livorno affinché si realizzasse la terza edizione del concorso “Fotografia e mondo del lavoro”. Proponendo un tema circoscritto alla città, “Il lavoro a Livorno nonostante il Covid-19” si è inteso ringraziare tutte quelle persone che con il loro operato hanno permesso a chi guardava dalle finestre le strade deserte, ed eravamo i più, di continuare ad avere i servizi essenziali per il vivere quotidiano. Il concorso ha avuto luogo anche grazie ai fotografi che hanno testimoniato un momento drammatico e vitale al tempo stesso.

Attendendo Martin Parr ci auspichiamo future iniziative, con nuove tematiche, che attraverso un’indagine sul mondo del lavoro sempre più vedano partecipanti di ogni dove, perché il lavoro è il terreno di comprensione della disparità di condizione tra paese e paese, perché parlare di lavoro significa riflettere sull’energia primaria della quale l’umanità dispone e sul concetto di democrazia. La fotografia può dare il suo contributo.

Serafino Fasulo
Art Director
Fondazione Carlo Laviosa

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Fotografare i Valori

Aids, Sars, Aviaria, Ebola, nomi divenuti familiari anche ai più disattenti. Tg, stampa quotidiana e periodica, editoria, hanno riempito i propri spazi di notizie che ci hanno accompagnato attraverso i decenni, preoccupati ma mai privati da un senso di immunità, dalla convinzione più o meno radicata che il problema riguardasse altri: uomini di paesi più…

Aids, Sars, Aviaria, Ebola, nomi divenuti familiari anche ai più disattenti. Tg, stampa quotidiana e periodica, editoria, hanno riempito i propri spazi di notizie che ci hanno accompagnato attraverso i decenni, preoccupati ma mai privati da un senso di immunità, dalla convinzione più o meno radicata che il problema riguardasse altri: uomini di paesi più a rischio, comportamenti alimentari, igenici, sessuali, “anormali”. Ci siamo comunque sentiti protetti dai confini che delimitano il mondo della civiltà, dei benpensanti, da quello delle barbarie. Il Covid 19 ha polverizzato in un attimo qualsiasi forma di certezza, qualsiasi forma di confine. In un’epoca in cui stati sovranisti si affannano ad erigere barriere, il virus si fa beffa di delimitazioni vecchie e nuove e globalizza l’umanità accendendosi a macchia di leopardo e colpendo indiscriminatamente aree di “elevata civiltà” e aree di estrema povertà. Entra nelle case aggirando sistemi d’allarme, porte blindate e serrature per rubarci gli affetti. L’Italia di santi, poeti e naviganti si scopre patria di untori che per prima ha importato il virus da terre verso le quali il sospetto non è mai venuto meno e ha fatto del suo triangolo circoscritto da Alpi e Appennino, la Padania, il fulcro di propagazione della peste del 2000. Scienza, religione, superstizione, hanno prodotto teorie, possibili rimedi e, talvolta con malcelata soddisfazione, i “l’avevamo detto” ma né la politica né il mondo intellettuale hanno colto il momento, escluse sporadiche occasioni, per riflettere sull’opportunità di una riclassificazione del nostro ordine dei valori. Tornare all’agognata normalità pre-Covid nasconde un effetto boomerang, essendo proprio quella normalità ad aver provocato la pandemia. Chi dovrebbe far riflettere sulla necessità di una revisione profonda del nostro sistema di vita, del concetto di confine, del concetto di globalizzazione che non può limitarsi alle regole del mercato, tace. In questo silenzio sono stati chiusi i cittadini. Molti sostengono che il lockdown non sia stato poi così duro; un film, il computer dei buoni libri, una passeggiata attorno all’isolato alla fine sono stati un’occasione per riposarsi, per riordinare casa ma in altri casi si è trattato di attività commerciali in crisi, di contratti non rinnovati, di decessi.

L’estate alle porte, la voglia di vacanze e di tornare a incontrarsi ha, troppo repentinamente, fatto abbassare la guardia. Già il primo giorno post lockdown e di apertura dei parchi cittadini si vedevano giovani ammassati come criceti e privi della tanto raccomandata mascherina. Il virus non ha cancellato quella sicurezza che ci porta a considerare il male come appartenente agli altri.

Con la terza edizione del concorso “Fotografia e mondo del lavoro” la Fondazione Carlo Laviosa ed il Comune di Livorno intendono mantenere viva la memoria su una pandemia annunciata ma non prevenuta. Intendono ringraziare tutte quelle persone che con il loro lavoro hanno permesso a chi guardava dalle finestre le strade deserte, e siamo i più, di continuare ad avere i servizi essenziali. Intendono ringraziare e omaggiare i fotografi e la fotografia che hanno documentato un momento storico, con una mostra nella piazza del Luogo Pio ed una pubblicazione delle 23 foto selezionate con attenzione e riflessione tra le tante inviate.

L’evento si aggiunge ai tanti già organizzati in Italia e in altri paesi. Altri ne saranno fatti. Non cercavamo, in questo caso, originalità ma ci premeva altresì raccontare lo sforzo di persone eccezionali impegnate a mantenere la normalità. Abbiamo invitato a partecipare al concorso non solo chi della fotografia ha fatto un mestiere o una passione ma anche coloro che si sono trovati a testimoniare con un cellulare eventi significativi. La bulimia di immagini fa parte della contemporaneità, ne produciamo tante soprattutto in virtù dei cellulari ormai dotati di fotocamere sofisticate ma in questo momento di emergenza l’immagine non è stata il frutto di una dipendenza dallo scatto bensì di una volontà di raccontare l’impegno ed il rischio che pochi hanno vissuto per permetter ai più che la vita continuasse. Scatti che non hanno comunque rinunciato ad un’attenzione all’inquadratura, alla composizione, all’esposizione, e che dunque dimostrano quanto il linguaggio fotografico si stia estendendo con un’attenzione alla sua grammatica a dispetto di una fase fisiologica del click dissennato.

Il bando ha raccomandato immagini di reportage escludendo aspetti forse più creativi legati alla pratica fotografica. Le parole di Ivo Saglietti, fotografo che da decenni è testimone di eventi in varie parti del globo, esplicano con chiarezza il valore che attribuiamo al reportage:

Il reportage è un mestiere con una profonda e radicata vocazione Umanistica: come mestiere richiede continuità, applicazione e formazione; la sua vocazione vuole cultura, linguaggio, umanità, impegno verso l’uomo e il suo destino. Con questo io mi sento “engagé”. È questo ciò che semplicemente cerco in una fotografia: un istante di Umanità

Serafino Fasulo
Art Director
Fondazione Carlo Laviosa

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Galleria Fotografica

I bimbi della mota

Nella notte di sabato 9 settembre del 2017, un terribile nubifragio si abbatté sulla città di Livorno portando morte e distruzione. Sulle colline alle spalle della città labronica caddero più di 200 mm di pioggia in circa 2 ore, in prossimità del Rio Maggiore e del Rio Ardenza, i due torrenti esondati. La città si…

Nella notte di sabato 9 settembre del 2017, un terribile nubifragio si abbatté sulla città di Livorno portando morte e distruzione.
Sulle colline alle spalle della città labronica caddero più di 200 mm di pioggia in circa 2 ore, in prossimità del Rio Maggiore e del Rio Ardenza, i due torrenti esondati.

La città si svegliò sotto il fango. Centinaia di giovani, chiamati “i bimbi della mota” che in livornese significa fango, spalarono per giorni, spontaneamente, per riportare la città alla normalità. Le colline avevano sensibilmente ridotto la permeabilità dei terreni e la capacità di drenaggio a causa delle opere dell’uomo.

Ho realizzato questi scatti nei giorni successivi al tragico evento. Ho aspettato i “bimbi” davanti ai due siti maggiormente colpiti, situati nella zona sud. Ho chiesto loro di fermarsi e di farmi scattare un ritratto. In seguito li ho contattati perchè lasciasserro anche una testimonianza scritta, un breve racconto sincero di quanto avvenuto, poche righe che potessero accompagnare il loro ritratto.

“Mi chiamo Emanuele, ma il mio primo nome è Angelo Emanuele, Angelo significa messaggero ed Emanuele Dio è con noi, due nomi che se uno ha fede come me sono bellissimi. Sento sempre la necessità di essere presente per gli altri e quando me lo scordo, sto un attimo in silenzio e penso al significato del mio nome, restare in silenzio.

Sono nato a Bari e sono stato adottato all’età di quattro anni, pochi certo ma abbastanza per ricordare cosa voglia dire non avere più una famiglia. Ora ne ho una bellissima con una mamma e un babbo che finalmente mi vogliono bene. Vi domanderete perché stia dicendo questo…il 10 settembre mi ha cambiato. Vedere tanta sofferenza, case distrutte, auto accatastate sugli alberi, mi ha fatto sentire perso come quando ero piccolo.

Non volevo crederci. Ho pregato per le persone morte e per quelle disperse. Perdere tutta la famiglia mi ha ricordato cosa voglia dire sentirsi solo. Mi sono detto allora perché stare a rimuginare in casa quando fuori hanno bisogno di me? Senza nemmeno l’abbigliamento adatto sono uscito e ho fatto la mia prima giornata come “angelo del fango”. Mi sono commosso e ho capito veramente cosa volesse dire essere un angelo, dare speranza, sorreggere chi avesse bisogno anche di un semplice abbraccio. I giorni successivi ho passato il mio tempo in via Pacinotti, ho spalato per tre giorni e alla fine mi sono sentito meglio, mi sono sentito diverso. Ho imparato che non tutto è perso, perché c’eravamo noi, tutti insieme a quelle persone che nonostante non fossero più con noi, vivono nei ricordi e gridano perché venga detto a voce alta che non è vero che non si sarebbe potuto fare niente…”

di Elide Cataldo

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Laviosa Chimica Mineraria
Nuove Frontiere

logoA partire dal 2019 il team delle vendite del settore Coating ha intensificato i suoi sforzi per estendere la propria presenza anche in aree non ancora raggiunte dal nostro business.

logoA partire dal 2019 il team delle vendite del settore Coating ha intensificato i suoi sforzi per estendere la propria presenza anche in aree non ancora raggiunte dal nostro business. A seguito della pandemia l’obiettivo di allargare i nostri confini si è fatto più urgente per compensare i cali di domanda conseguenti al lockdown.

Le aree sulle quali il team si è focalizzato sono: Israele, Nuova Zelanda, Australia, Argentina, Messico, Uzbekistan e Canada. Sono state avviate nuove collaborazioni con distributori locali che, in alcuni casi sono in fase preliminare, in altri come in Canada hanno visto già una loro importante concretizzazione in vendite di FCL.

L’interesse del mercato Canadese si è focalizzato sul Laviosa Viscogel XGM, un prodotto innovativo auto-attivante che vede il suo maggior campo di impiego nei grassi e lubrificanti. Tale prodotto è stato messo a punto recentemente ed ha visto il coronamento di  un notevole sforzo sinergico tra i seguenti team: sviluppo prodotti, engineering, produttivo, acquisti e vendite.  Sono state individuate dai vari team soluzioni innovative alle problematiche che necessariamente si presentano durante lo sviluppo, la produzione e la proposta di un nuovo prodotto.

Grazie a questo nuovo prodotto, commercializzato con il private label del nuovo distributore locale, è stato possibile inserirsi in un mercato finora inesplorato caratterizzato da interessanti volumi e scarsa presenza di competitors a basso costo.

E’ stato quindi possibile muovere il primo passo in nuovo mercato nel quale sarà certamente necessario affermare presenza ed affidabilità per guadagnare posizioni sempre più rilevanti.

Angela Baldocchi- Customer Service
Laura Buselli – Customer Service
Michela Novi- Customer Service
Nico Sgrolli – Coating & Plastic Technical Sales
Valentina Ermini – Coating & Plastic Technical Sales manager

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Laviosa Chimica Mineraria
CAMPO NATURA – Stare insieme e condividere emozioni

“Dove sono le mie amiche?” “Chi si occuperà delle piante?’” Queste le domande pronunciate dalle figlie degli educatori Alessandra e Nicolò il sabato mattina. I giorni precedenti infatti, a bordo del pullman privato partito da via. L. da Vinci, alla Fattoria Laviosa arrivavano alle 8.30 Gaia, Eva, Anna, Alice, Edoardo, Marta, Gaia, Agata e Lylou…

logo“Dove sono le mie amiche?” “Chi si occuperà delle piante?’”

Queste le domande pronunciate dalle figlie degli educatori Alessandra e Nicolò il sabato mattina.

I giorni precedenti infatti, a bordo del pullman privato partito da via. L. da Vinci, alla Fattoria Laviosa arrivavano alle 8.30 Gaia, Eva, Anna, Alice, Edoardo, Marta, Gaia, Agata e Lylou per passare tutti insieme cinque giornate all’insegna della spensieratezza e della socializzazione, attraverso l’accudimento delle piante, i laboratori artistici, creativi, sensoriali, le partite a tennis, i giochi di squadra, i momenti di relax, il tutto immersi in un ambiente naturale e confortevole, saturo di calore e del canto delle cicale.

E sono proprio le parole dei bambini che ci descrivono al meglio quello che è stato per loro.

Gaia (6): “E’ stato così divertente che speravo durasse ancora di più! Ho conosciuto tanti nuovi amici ed amiche e mi è piaciuto tantissimo il percorso sensoriale! È stato bello perché potevamo “fare tutto quello che non si poteva” come dice la canzone che ci hanno fatto ballare!”

Agata (8): “E’ stato divertente perché abbiamo fatto nuove amicizie e nuove esperienze con i maestri e mi dispiace tanto che sia già finito!”

Eva (12): “Alla Fattoria Laviosa sono stata benissimo: mi è piaciuto molto dipingere con le mani e giocare a tennis. Gli educatori sono stati simpatici e divertenti”

Edoardo (5): “Mamma oggi quando vai a lavoro chiedi se posso fare il bagno in piscina? “Mamma ma lo sai che Eva ha visto lo gnomo?”
“Edoardo ti è piaciuto il Campo Natura?” “Sì mamma, duemilacentoventieunotrentamilaquattro”

Alice (8): “Mamma sarebbe bellissimo se tu potessi andare a lavorare con il tuo computerino nella Fattoria, lì si sta benissimo, si possono fare un sacco di ruote e balletti”

Lylou (6): “Mi è piaciuto tanto stare con le bimbe grandi e tantissimissimo giocare a tennis.
“Lylou ma il prossimo anno ci ritoni al Campo Natura? “Si con i miei amici però”

Gaia (13): “Sai mamma…pensavo di essere un po’ troppo grande e invece mi diverto un sacco e si fanno tante cose anche con i piccini…anche con mia sorella… (nota dei genitori: è un evento straordinario, bisticciano sempre!)

Marta (8): “Ma ci posso andare anche sabato e domenica?”

Anna (8): “Mi sono divertita tanto, ho conosciuto nuovi amici con i quali mi sono divertita a giocare e ho fatto tante attività con loro e i maestri. Spero tanto di poterlo rifare il prossimo anno”

Cosa volere di più? Noi genitori non possiamo che ringraziare chi ha avuto questa bellissima idea, chi l’ha organizzata, chi ci ha creduto e ha dato la possibilità di realizzarla e chi l’ha messa in pratica con competenza ed entusiasmo ed ha saputo catturare la curiosità e l’attenzione dei nostri bambini.

È stata davvero una stupenda esperienza e averla fatta in mezzo alla natura una bellissima idea, perché i bambini hanno potuto così dedicarsi ad essa, comprenderla e viverla.

L’augurio è quello di poterla ripetere il prossimo anno con ancora più partecipazione ed emozione!

campo-natura

di Claudio, Elena, Ilaria, Irene, Rachele, Rachele Sara, Yari

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Laviosa Chimica Mineraria
Colleghi a confronto

Dirsi per età, sesso, anzianità ed esperienza lavorativa… tre nostri colleghi si mettono in gioco con un’intervista in perfetto stile “Le Iene”, un po’ spiritosa e un po’ seria… un po’ personale e un po’ lavorativa. Io mi sono divertita e credo anche loro… spero possa strappare un sorriso pure a voi! Buona lettura. Irene…

logoDirsi per età, sesso, anzianità ed esperienza lavorativa… tre nostri colleghi si mettono in gioco con un’intervista in perfetto stile “Le Iene”, un po’ spiritosa e un po’ seria… un po’ personale e un po’ lavorativa.

Io mi sono divertita e credo anche loro… spero possa strappare un sorriso pure a voi!

Buona lettura.

Irene Scala

Clicca QUI o sulla foto per scaricare il pdf con l’intervista.

colleghi-a-confronto

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Aya papaya

Affacciata sull’Oceano Indiano nello stato del Tamil Nadu (India del sud) c’è la città di Pondicherry, con i suoi 221.000 abitanti (il doppio se comprendiamo le zone circostanti). Colonia francese dal 1674, subì più tentativi di assedio da parte degli inglesi. Nel 1954 fu ceduta all’India. Il centro storico di Pondicherry si presenta in stile…

Affacciata sull’Oceano Indiano nello stato del Tamil Nadu (India del sud) c’è la città di Pondicherry, con i suoi 221.000 abitanti (il doppio se comprendiamo le zone circostanti).

Colonia francese dal 1674, subì più tentativi di assedio da parte degli inglesi. Nel 1954 fu ceduta all’India.

Il centro storico di Pondicherry si presenta in stile francese e la città non mostra segni di degrado ma basta spostarsi di una manciata di chilometri per essere proiettati in un altro mondo. Confinato a nord est di Pondicherry c’è un piccolissimo villaggio di pescatori, un villaggio di odori, di colori, di donne e bambini sull’uscio di casa. Donne che si pettinano, che cucinano per le famiglie, bambini, vecchi, cani, galline e mucche. Madri e figlie che all’alba realizzano kolam all’entrata di casa per allontanare le negatività e ringraziare per quel poco che hanno. Gente povera ma piena di vita. Nel villaggio convivono induisti, cattolici, musulmani e ci sono piccoli templi e chiesette per la preghiera. Un mondo di confine, un mondo alla periferia che non conosce il lato francese della città. Nessuno degli abitanti sa cosa sia una patisserie o una baguette e probabilmente nemmeno gli interessa.

È qua che, nel 1997, è “sorta” l’Associazione Onlus Shanti Joy Nivas (www.shanti-joynivas).

Shanti significa pace del corpo e della mente. Shanti è un canto che invoca la pace in tutte le persone e in tutti gli abitanti della terra. Joy Nivas significa Casa della Gioia.

Shanti Joy Nivas nasce in modo spontaneo, in virtù dell’aiuto offerto dai coniugi Daniela Olmeda e Devi Debiprasad ad una collaboratrice domestica abbandonata dal marito con due figlie piccole alle quali si sono aggiunte, poco dopo, due bimbe orfane e poi, provenienti dal vicinato, altri bambini che necessitavano assistenza avendo i genitori impegnati nel lavoro.

In quest’area di Pondicherry vivevano molte donne sole abbandonate dai mariti per donne più giovani, che trovavano rifugio nell’alcolismo trascurando i figli. Nei primi due anni di vita dell’associazione Daniela e Devi hanno accolto nella loro casa le persone bisognose ma quando si è raggiunta la presenza di oltre trenta bambini è stata presa in affitto una grande casa dove sono state trasferite le attività. Per il villaggio “la casa” è diventata un punto di riferimento ed il numero di piccoli frequentatori è aumentato anche a causa dello Tsunami del 2004. È in questo periodo che è nato l’Asilo per il quale sono state formate donne del villaggio come maestre, cuoche e tuttofare. In breve tempo anche la casa in affitto non più stata sufficiente: nel 2011 l’attività di Shanti riguardava più di 50 famiglie. È nato così il progetto del Centro Shanti Joy Nivas. Grazie ai fondi di Daniela e Debi, all’attività dei volontari, ai mercatini, alle donazioni dei sostenitori, alle adozioni a distanza, in poco tempo è stato possibile costruire il nuovo centro, inaugurato nel 2013.

In questi anni sono state affrontate le problematiche di molte donne e delle loro famiglie. Sono state costruite nuove capanne di foglie di cocco che sono state dotate di fornelli e utensili da cucina, parte del villaggio è stata fornita dell’elettricità. L’assistenza per le madri è costante, sono stati liquidati prestiti finanziari è si è combattuta l’usura grazie anche ad investimenti di Microcredito. Shanti è divenuto un vero e proprio punto di riferimento per il villaggio. Anche la polizia, se c’è un problema, spesso si rivolge al Centro Shanti.

Nel 2015, dopo 20 di attività del Centro Shanti Joy Nivas, i dati ufficiali mostravano che 470 bambini avevano frequentato l’asilo, che 210 di questi erano stati scolarizzati; che erano state formate 34 maestre e si erano avvicendati 22 collaboratori.

Lo scorso anno sono tornata in India per la seconda volta. Avevo da poco concluso un workshop di fotografia sul tema del volontariato e mi era rimasta la voglia di approfondire l’argomento e mettere in pratica quanto imparato. Shanty è apparsa “per caso” nel mio cammino (nel caos dell’India per i credenti niente avviene realmente per caso). Postando una foto sui social, Vittorio, un ex compagno di università amico di Daniela e suo referente francese, ha riconosciuto il lungomare di “Pondi” e mi ha suggerito di andare a conoscere il Centro Shanti convinto che mi sarebbe piaciuto. Così è stato. Sono rimasta a lungo nel villaggio, documentando ogni cosa. Al ritorno ho deciso di adottare a distanza uno dei bimbi di Shanti.

Arrivata al Centro faceva caldissimo, Daniela era in mezzo ai suoi bambini più piccoli e cantava una filastrocca mischiando più lingue: “Aya Papaya om namah shivaya il gallo è lì nell’aia…”

Mi ha detto che Aya vuol dir nonna in lingua Tamil, la papaya è un frutto che i bambini adorano e “om namah shivaya” sarebbe troppo lungo da spiegare. Queste parole unite non significano niente, ma ai bambini piace il suono multietnico e ridono. A Shanti tutti sono ben accetti, non si fa distinzione di provenienza, colore della pelle o religione.

Daniela davanti ad un tè chai mi ha raccontato la sua storia, una storia da film. Non sono stati lo yoga, l’induismo, la religione, né la vocazione al volontariato a spingere Daniela in India. È stato l’amore per Devi “il musicista indiano”. Daniela e Devi si sono conosciuti a Pesaro. Lui era un musicista famoso, di casta bramina, in tourné in Italia, lei una ragazza ribelle di una buona famiglia italo-svizzera che faceva la traduttrice durante i concerti. Si innamorarono e insieme andarono in India. Con non pochi problemi legati alla casta si sposarono e tutto ebbe inizio.

Debi è morto improvvisamente d’infarto sette anni fa lasciando Daniela e la figlia Zoe nella disperazione. Le sue ceneri sono state sparse su una pianta al Centro Shanty e un raggio di sole tutte le mattine l’attraversa e colpisce dritto al cuore tutti quelli che entrano in quel piccolo paradiso.

Francesca Giari

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Schizzami ancora, Mayor.

Sono quei tuffi che ti lasciano senza fiato, senza respiro, ti sembra di non arrivare mai E quando arrivi vorresti essere sul trampolino di nuovo perché non ti aspettavi l’acqua così fredda.. Da “Siuski” di Lamberto Giannini La compagnia teatrale Mayor Von Frinzius, diretta da Lamberto Giannini, nasce a Livorno nel 1997. Oggi si avvale…

Sono quei tuffi che ti lasciano senza fiato, senza respiro,
ti sembra di non arrivare mai
E quando arrivi vorresti essere sul trampolino di nuovo
perché non ti aspettavi l’acqua così fredda..

Da “Siuski” di Lamberto Giannini

La compagnia teatrale Mayor Von Frinzius, diretta da Lamberto Giannini, nasce a Livorno nel 1997. Oggi si avvale del supporto di Marianna Sgherri, Rachele Casali e Gabriele Reitano, conta circa 80 attori metà dei quali disabili e per la restante metà un gran numero di giovani poco più che adolescenti e qualche adulto. È importante sottolineare il “circa” perché la compagnia è un porto aperto sia in entrata che in uscita. Collabora con l’associazione O.A.M.I. (Opera Assistenza Malati Impediti) ed ha il sostegno di importanti partner come Fondazione Teatro Goldoni, The Cage Theatre, ASA, Aamps e Banca di Credito Cooperativo di Castagneto Carducci, oltre a quello di sponsor privati, a dimostrazione dell’importanza del lavoro svolto, affrontato con perseveranza e serietà.
Negli anni, ai Mayor Von Frinzius vanno importanti riconoscimenti su territorio nazionale. Segnaliamo la vittoria al concorso di Benevento, nel 2011, con Tutti Pazzi x il Teatro; il premio come Miglior Spettacolo ad Alba, nel 2015, con Ossessione – il surplace di Maspes, in occasione del IV Premio Nazionale Beppe Occhetto; il premio “Migliore compagnia teatrale” al festival di Trani, “una sorta di Coppa dei Campioni del teatro in Italia”, nel 2016, con Resistenti – vola Pirata. Nel 2011 la compagnia varca i confini nazionali e al regista Giannini e collaboratori viene consegnato il diploma di Compagnia di rilevanza internazionale da parte del Teatro Arka di Wroklaw.
Incontro importante è stato quello con il cantautore livornese Bobo Rondelli nel 2006. L’allora frontman degli “Ottavo Padiglione”, rimase folgorato dalla carica di spontaneità ed energia dei Mayor Von Frinzius. Il gruppo teatrale e i musicisti si unirono in uno spettacolo musicale e teatrale, Io claun te daun, in cui coreografie e pantomime messe in scena dagli attori interagivano con la musica degli “Ottavo Padiglione”. Lo spettacolo è stato replicato in molte città italiane.
Dalla collaborazione con l’attore livornese Paolo Ruffini sono scaturiti due spettacoli Un grande abbraccio e Up & Down che hanno visto la compagnia presente in importanti teatri nazionali. Up & down sarà anche un docu-film per la regia di Paolo Ruffini e Francesco Pacini e riceverà il “Kineo International Award” alla Mostra del Cinema di Venezia.
In 23 anni di attività i Mayor hanno prodotto più di 40 spettacoli, docu-film, spot promozionali, affrontando temi come fragilità, libertà, sesso, sentimenti, ossessioni, disabilità, emarginazione, detenzione, perdita dei valori, amore e morte, scorrere del tempo, rabbia, ironia, malinconia in un alternarsi di momenti “up e down” a raccontare l’andamento della vita. Su di loro sono stati scritti due libri, sono stati ospiti di trasmissioni televisive, festival teatrali e cinematografici. Hanno raccontato il loro modo di lavorare in workshop tenutisi in Italia e all’estero. Con l’ultima produzione, Siuski, tuffo labronico per eccellenza che ha come scopo il fare più schizzi possibile, dimostrano di non aver perso smalto e ribadiscono che Mayor Von Frinzius è un progetto artistico, non terapeutico. Se la compagnia si è rivelata incredibilmente benefica per gli attori che la compongono è grazie alla ricerca espressiva ed artistica. In sintesi fare teatro non necessita di un’attitudine terapeutica né tantomeno assistenzialista, poiché è esso stesso pratica ontologica utile alla crescita qualitativa dell’essere umano. Tutti dovrebbero far teatro per una consapevolezza del sé e della propria relazione con gli altri.
Nel luglio del 2020 Siuski, fatto schizzi? è stato rappresentato in tre luoghi magici di Livorno: il 18 ha debuttato a Quercianella, frazione della città, su un palcoscenico affacciato sul mare, il 24 è stato replicato nella splendida cornice della Terrazza Mascagni, il 30, in Piazza della Repubblica, ha chiuso la kermesse Effetto Venezia.
Siuski rappresenta forse il momento più malinconico del percorso dei Mayor Von Frinzius. Racconta una Livorno che al primo raggio di sole assume la camminata da scoglio, o meglio da cemento perché su questo materiale sorge la vita negli stabilimenti balneari. Infradito, bacino leggermente ruotato in avanti, piedi “dieci alle due” a strascicare indolenze che si animano in una “siuski”, ovvero in un tuffo eseguito con il corpo raccolto a palla, le braccia a stringere le ginocchia, il viso nascosto tra queste. Un volo nell’acqua a provocare più schizzi possibili affinché raggiungano gli astanti per rivendicare la propria esistenza: “io ci sono”.
E ancora e ancora, una “siuski” dietro l’altra a segnare lo scorrere del tempo, a far da cronometro all’avvicinarsi di una possibile separazione da una città amata e detestata, una città che avvinghia e che non fa crescere. “Siuski” come metafora del palcoscenico, palcoscenico come metafora della vita. Finché si è in scena non si muore, si dribbla la morte tra schizzi che nascondono lacrime.
Le dimensioni di piazza della Repubblica, la piazza-ponte più grande d’Italia, la dicono lunga sulle attese di pubblico che sono state ampiamente confermate.
Abbiamo incontrato il regista Lamberto Giannini per un’intervista.

 

Lamberto, come nasce l’idea dei Mayor Von Frinzius?

L’idea dei Mayor nasce per un’esigenza personale. Nel teatro che facevo non trovavo determinate risposte, non per responsabilità degli altri ma perché non si adattava a me. Senza la pretesa di fare qualcosa di migliore ho sempre cercato di fare un teatro in cui potessi trovare dei riferimenti alla marginalità che mi attrae e mi spaventa. Ho iniziato facendo teatro in carcere, dopodiché mi chiamò lo psicoterapeuta Pier Giorgio Curti e mi disse che voleva fare un laboratorio teatrale all’Anffas. Con Curti lavoro tutt’oggi, avendolo ritrovato all’ O.A.M.I., la nostra associazione di riferimento. In occasione del nostro primo incontro abbiamo fatto un anno di studio teorico, anche pesante poiché io portavo le mie idee di teatro e lui i suoi riferimenti psicanalitici che potevano aiutare i ragazzi e poi abbiamo iniziato in maniera sperimentale. Ciò mi ha fatto riemergere una passione che ho per la “follia”, che mi deriva dall’aver avuto uno zio down e dalla capacità di risposte spiazzanti che ha la follia, capace di produrre un surrealismo né costruito né compiaciuto. Si tratta di qualcosa di potente che ti colpisce. Ricordo che una delle prime volte ho sentito due ragazzi che parlavano, uno ha chiesto “come si chiama tuo padre?”, “Guido” ha detto l’altro, “dai, non te la prendere” è stata la conclusione del primo e io ho pensato “qui siamo su Marte”, un surrealismo naturale che ho trovato fantastico. Ecco, mi son detto, io voglio far teatro con loro. Poi mi sono reso conto che anche il teatro come tutti i linguaggi può diventare una ghettizzazione, cioè se si fa teatro solo con attori professionisti si crea il ghetto degli attori professionisti che si riciclano. Basta andare al cinema, si vedono sempre gli stessi attori; se si fa teatro con i disabili, i disabili non vedono altro che disabili. Siccome molte persone iniziavano a dirmi che lo spettacolo gli era piaciuto e che gli sarebbe piaciuto farlo, allora in virtù di un’idea di contrasto che mi è sempre piaciuta mi è venuto di allargare la compagnia quasi all’infinito: più persone vengono più teatro si fa. In tutto questo ho fatto particolare attenzione agli adolescenti perché anche loro hanno percezioni anomale delle cose, per andare a scuola partono da casa cinque minuti prima dell’orario d’ingresso, ovunque abitino, e sono convinti di arrivare puntuali. Questa mancanza dei concetti di tempo e di spazio dell’adolescente e del ragazzo disabile mi ha portato a metterli insieme e ne è scaturita una miscela, a mio avviso, potentissima.

L’attrazione che hai avuto per la marginalità ha uno dei suoi fattori nell’elemento sorpresa, in quell’elemento che irrompe nelle vite “normali” di ognuno di noi scuotendole. Ci sono anche altri aspetti che ti intrigano della marginalità?

Ce ne sono e sono anche un po’ imbarazzanti perché comportano il rischio di farti passare per quello che non sei, ovvero per quello buono. Però l’idea che il mondo così come è non mi piace è forte, da qui la volontà di trasformarlo con una pratica rivoluzionaria. Non si tratta della rivoluzione dei massimi sistemi ma secondo me far diventare protagonista chi è sempre stato nella marginalità e far sì che scopra che il protagonismo non serve tanto per la carriera o per la fama ma affinché gli altri ti riconoscano e ti apprezzino per quello che sei. Questo può avere anche una chiave terapeutica. È un aspetto del quale non amo parlare perché fa sconfinare in una dimensione retorica ma indubbiamente esiste. Tutti hanno un corpo, tutti hanno una voce, tutti possono fare teatro, pertanto ho cercato con serietà, e ciò non significa che ci sia riuscito, di fare un teatro dove loro, i protagonisti, ci sono perché sono bravi, di fare un teatro non per loro ma con loro: io ho bisogno di loro. Questo rappresenta una sorta di rivoluzione perché quello che normalmente si fa con i disabili è qualcosa che serve ad aiutarli, invece in questo caso io ho bisogno di loro, pertanto se uno manca alle prove m’incazzo, se uno sbaglia m’incazzo perché ho bisogno della loro energia, della loro forza e quindi anche loro devono farsi carico dei miei bisogni. Non sono lì per soddisfarli ma si tratta di un rapporto reciproco di dare e avere, dunque chiedo molto cercando di dare tutto quello di cui dispongo.

Hai notato nei tuoi attori dei cambiamenti durante vostro percorso?

Sì, dei cambiamenti incredibili non cercati ma molto gratificanti. Un ragazzo completamente asociale che non permetteva ai genitori neanche di andare a mangiare una pizza o di uscire perché si metteva da una parte a piangere adesso è uno dei protagonisti assoluti del nostro gruppo, va in vacanza con i genitori, cerca le persone, ci parla e da un po’ fa anche il cameriere. Ma non sono i Mayor von Frinzius che fanno i miracoli, è il teatro a farli perché ti fa capire che ti puoi esprimere anche in un altro modo.
In questa fase sentiamo il bisogno di un occhio esterno, a tal proposito sto riprendendo contatti con lo psicoterapeuta Curti affinché ci dia dei suggerimenti che non devono diventare condizionanti, la libertà creativa non deve essere imbrigliata, ma che ci possano rendere consapevoli dei passaggi che stiamo facendo.

Nelle vostre frequenti tournée le famiglie erano presenti?

No, sia che si trattasse di trasferte corte o lunghe i genitori non dovevano venire, salvo rare eccezioni. Le prime trasferte le abbiamo fatte con Bobo Rondelli, quindi in un clima di follia totale. Nel 2008 siamo andati a Catanzaro. Alberghi, aerei preoccupavano i genitori ma i ragazzi hanno reagito benissimo. Questo mi ha spinto a formare giovani ragazzi a stare con i disabili, a far fronte a esigenze pratiche. Quando si è in camera c’è da lavarli, c’è da venire incontro alle loro esigenze. Anche questo è diventato formativo e ci ha dato sicurezza. Abbiamo iniziato a fare lunghe trasferte, a partecipare a festival come quelli di Trani e di Benevento. Trasferte lunghe in pullman che avrebbero meritato una documentazione video, sembrava di essere in “Qualcuno volò su nido del cuculo”, alcuni non sapevano se si andava a Nord o a Sud, gli autistici d’altro canto sapevano esattamente il numero di chilometri e di metri dalla partenza all’albergo. Uno dei momenti più belli che ricordo è stato quando a Trani, dopo aver vinto il festival, abbiamo deciso di fare il bagno di notte nella piscina dell’albergo e la direzione ci ha permesso di farlo. Un momento che ha rivoluzionato l’idea che si ha dei disabili come soggetti distanti dalle dinamiche sociali che guardano la televisione e fanno merenda avulsi dal contesto.

In 20 e più anni avete realizzato molti spettacoli e anche documentari. Come nasce il testo teatrale?

La svolta c’è stata nel 2005 quando ho capito che non dovevo fare solo laboratori ma che potevo fare teatro. Nel 2006, dentro l’Aamps, nasce lo spettacolo Crudo, crudele che rafforza questa certezza. Il testo lo affrontiamo partendo da un tema, il tuffo per quanto riguarda lo spettacolo Siuski. Che cosa vuol dire tuffarsi? Quale è il senso del tuffo? Scrivo delle cose su questo tema, talvolta scrive anche qualcuno dello staff, e poi si cominciano a mischiare testi e movimenti secondo un comune denominatore: l’emozione. L’obbiettivo, come in un concerto rock, è l’emozione. Se si guarda la scaletta di un cantante pop si vede che ci sono canzoni rock che si alternano a momenti malinconici, melodici. Così costruisco le scene non secondo un ordine cronologico ma attraverso momenti emozionali: sorpresa, stasi, “botta” d’energia, stasi poetica. In questo modo, avendo un tema di riferimento mi posso permettere di integrare quanto durante le prove accade.

Le variazioni sul tema portano comunque ad una partitura, ad una drammaturgia?

Sì, ad una scaletta con inizio, svolgimento e fine dove l’argomento di partenza è collocato attraverso nodi tematici.
Il testo scaturisce dalle improvvisazioni ma una volta arrivati a comporlo va ripetuto nelle varie repliche. Una volta costruito lo spettacolo è quello e deve tenere i ritmi che abbiamo trovato. Il ritmo è un elemento importante e per averlo tutti devono conoscere cosa fare in un determinato momento.

La codificazione di un testo in che misura riduce l’elemento sorpresa?

Riduce sicuramente la possibilità di sorpresa ma è subentrato un nuovo elemento: molti di loro sono diventati dei mestieranti. Federico Parlanti, ad esempio, dice sempre le solite battute ma il pubblico ha la sensazione che stia improvvisando e in questo, secondo me, sta l’arte dell’attore. Questo ci fa perdere qualcosa, aspetto sul quale sto riflettendo, ma ci fa guadagnare molto in termini di ritmo che deve essere incessante. Loro devono sentirsi sempre in scena e devono essere sempre attori perché entrare e uscire dal personaggio potrebbe essere complicato. In questo meccanismo gioca un ruolo fondamentale la memoria. Molti disabili hanno una gran difficoltà con la memoria però conoscono, come tutti, molte canzoni a memoria. Pensando a quante canzoni conosciamo a memoria e alle poche poesie che ricordiamo mi ha consentito di lavorare su quest’aspetto. I sottofondi musicali riportano automaticamente a un testo e i ragazzi stanno diventando molto abili nell’associare musica e parole.
Sto pensando a un’ipotesi di spettacolo come prova aperta dove il pubblico vede me che m’incazzo, le cose che accadono, Giacomone che si “scaccola”, perché secondo me potrebbe essere un meccanismo di valorizzazione del lavoro poiché spesso le cose più belle, quelle che accadono durante le prove si perdono. Vorrei mostrare il percorso di costruzione di uno spettacolo.

L’amalgama tra varie tipologie di handicap, compresa la normalità, che tipo di difficoltà dà e che tipo di energia produce?

La difficoltà è data innanzitutto dai tempi, una cosa che può essere “logicizzata” in poco tempo nel nostro caso richiede tempi maggiori. Il vantaggio è che quando un elemento è acquisito lo è per sempre. Raramente i ragazzi fanno errori come impallarsi, dare le spalle al pubblico, non bilanciare la scena. Sono aspetti che ormai fanno parte di un linguaggio, di una disciplina. Il down che è costretto a rispondere allo stesso modo dopo un po’ si “sfava” e se lavora con un soggetto autistico le difficoltà possono derivare dal fatto che quest’ultimo impazzisce se si cambiano alcuni elementi di una battuta. Quando però si convincono dell’importanza delle cose, l’energia che ne scaturisce è potente perché vedi che stanno lavorando su loro stessi. Il grande rischio del lavoro con la disabilità è che quello che proponiamo sia “inevitabilmente” ganzo, questo fa sì che si crei un mondo parallelo pericolosissimo dove loro diventano tamagotchi, pupazzini bellini. Un mondo nel quale l’adolescente per due ore si dimentica di sé. No, vorrei portarli nel mondo della consapevolezza.

La prossima “Siuski” sarà a Effetto Venezia. Cambiare luogo, palcoscenico, piazza, teatro che relazione sviluppa con lo spazio?

Inizialmente facevamo difficoltà, ora siamo adattabilissimi a tutto. Noi normalmente lavoriamo avendo un picco massimo che è dato dallo spettacolo al Goldoni dove tutto è legato allo spazio, si fanno quattro prove sul palco e la prova generale in maniera tale da familiarizzare con lo spazio. Nelle repliche, fatte altrove, lavoriamo all’adattamento necessario, anche modificando le scenografie. Quest’anno il Covid ci ha creato grandi difficoltà perché quando lo spettacolo era pronto il Goldoni non era più accessibile. L’idea di rinunciare a uno spettacolo dopo aver lavorato tanto è stata frustrante. Abbiamo lavorato on line e abbiamo fatto anche uno spettacolo on line il 27 e 28 maggio che dovevano essere le date previste per il Goldoni. Poi con caparbietà abbiamo sollecitato l’Amministrazione Comunale e abbiamo individuato la Terrazza Mascagni come luogo per una rappresentazione. A questo spazio si sono aggiunti quello di Quercianella e di Effetto Venezia, quindi tre occasioni che ci hanno consentito di finalizzare il lavoro. Avere l’onore di chiudere Effetto Venezia, la festa di Livorno, ci riconnette con la città.

Pubblichiamo questo articolo ed un reportage che racconta i momenti di prova e la messa in scena di Siuski. Gli scatti hanno dato ampio spazio al lavoro che precede la messa in scena, una “siuski” non si fa senza impegno, dedizione, amore, coraggio. Con la speranza che ci arrivino gli schizzi salmastrosi e che ci immunizzino dai virus.

 

Serafino Fasulo

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